By Claudia Porrello

Il racconto più autobiografico di Nanni Moretti, che affida a Margherita Buy, sua alter ego femminile, un’esperienza emotiva di sradicamento del proprio sé.

Dall’uscita di Habemus Papam, forse il suo film più autarchico e profetico, sono passati quattro anni. Il ritorno al cinema di Nanni Moretti, che si conferma il cantore più autentico e ironico della sua generazione, non poteva di certo passare inosservato: la sua nuova pellicola, Mia Madre, concorrerà per la Palma d’Oro al 68° Festival di Cannes che aprirà le danze il 13 maggio. Protagonista la splendida Margherita Buy, fedele compagna di viaggio e tra le attrici feticcio del regista romano d’adozione.

Margherita è una regista. Sta girando un film sulla precarietà del mondo del lavoro che ha come protagonista un eccentrico e stizzoso attore americano. Ma Margherita ha anche una madre ricoverata in ospedale, che assiste assieme a Giovanni, il “fratello perfetto” che sembra sempre un passo innanzi a lei. Alla madre, dicono i medici, non resta molto tempo da vivere. Tra le riprese sul set, che si rivelano più complicate del previsto, e una figlia 13enne che ha problemi col latino (quello stesso latino che insegnava la madre), la protagonista affronta l’esperienza del dolore per un lutto ormai imminente e che fa già fatica a gestire.

Dopo La stanza del figlio e Caos calmo, Moretti si riaccosta al tema dell’elaborazione del lutto in chiave assai più intima e con una rispettosa delicatezza. La reale perdita della madre, subita non troppo tempo fa, è l’avvenimento da cui ha preso le mosse l’idea del film. Nello stile è facile riconoscere alcuni tratti distintivi del cinema morettiano, non privi di innovazioni originali, dalla semplicità e leggibilità delle inquadrature, fluide e incisive, all’utilizzo della macchina da presa come fosse il diario di una parte di vita che rapidamente si consuma.

L’alter ego maschile caro a Moretti prende le sembianze di una figura femminile non accogliente nè accudente, ma a disagio nel rapporto sia con la madre, che con la figlia e con sè stessa. Margherita (Buy) è la protagonista che si mette a nudo senza più certezze, si autoanalizza e vive un lutto precoce tutto suo, che la porta ad estraniarsi dalla realtà, confondendola col sogno ed il ricordo. In fondo, anche lei, è uno dei quegli individui dipinti in passato negli altri film di stampo morettiano: si muove passando da una microcella sociale all’altra come l’ospedale, spazio di incontro con la madre sofferente (vita privata), o il set cinematografico (vita lavorativa), dove Margherita riflette tutte le sue ansie, nella spasmodica ricerca di una vita d’uscita dalla sofferenza.

Moretti è abile nel ritagliarsi questa volta il ruolo non invadente dell’“aiutante”, della “spalla” onnipresente che veglia sulla sorella. Sembra che adotti uno sguardo distaccato, ma distaccato non è: come fosse spettatore del suo stesso film fatto di personaggi “buoni” e forti, che si mostrano in tutta la loro umanità e verità. John Turturro è spumeggiante e perfettamente a suo agio nei panni della star hollywoodiana, mentre il ruolo di maggior valore spetta a Giulia Lazzarini, la “madre” e la nonna Ada, che ha una funzione educativa. Da un lato è l’insegnante di latino innamorata della cultura, dei suoi alunni e della vita. Dall’altro impersona la “coscienza” che abita l’anima della figlia e che bussa alla sua porta, costringendola a un esame interiore. Uno dei messaggi veicolati dal film è legato all’importanza del rapporto familiare tra madre e figlia/o, quel legame quasi sacro che vince su tutto, e che quando arriva un distacco improvviso può portare alla destabilizzazione, alla mancanza di lucidità, alla perdita di qualsiasi punto di riferimento.

E’ emblematica l’inquadratura in carrellata dei vecchi libri di latino, depositari di tanta cultura, che muore insieme a chi se ne fa portavoce. I momenti di silenzio e privi di dialogo, così come le inquadrature buie ma bellissime, sono il riflesso della penombra interiore e irrisolta di Margherita.

Commovente, forte, straniante, leggero e brillante in ogni sua parte, summa dei quarant’anni di cinema di Nanni Moretti che convergono tutti insieme in un’unica grande storia. Una riflessione sul labile rapporto tra realtà e finzione, esplicata dal concetto più volte ripetuto dalla regista Margherita come un tormentone: “L’attore deve stare accanto al personaggio”.