By Niccolò Lucarelli

Sulla scia di Giacomo Leopardi, che riflette approfonditamente sulle sue sofferenze personali ritrovandovi caratteri universali, allo stesso modo Louise Bourgeois crea opere d’arte “liberatorie”, capaci di parlare a ogni individuo, di suscitare emozioni universali, sfiorando anche tematiche importanti come la condizione femminile. Tuttavia, la sua resta sempre un’ottica fortemente autobiografica, e la tematica sociale vi entra per coincidenza, a differenza, ad esempio di quanto accade per Niki de Saint Phalle.

Louise Bourgeois nel 1986 - © Peter Bellamy © The Easton  Foundation - VEGAP Madrid
Louise Bourgeois nel 1986 – © Peter Bellamy © The Easton Foundation – VEGAP Madrid

Parigina di nascita, dopo la formazione all’École des Beaux-Arts si trasferì a New York nel 1938, il che le permise di sottrarsi al difficile clima familiare, causato dalla problematica figura paterna. Conoscendo questo retroscena, si comprende la sua affermazione di donna adulta: “Fare arte non è una terapia, è un atto di sopravvivenza”. Un’affermazione che ci riporta in parte all’approccio di Niki de Saint Phalle, sua collega che come lei non ebbe un’esistenza facile. A Louise, il padre, antiquario e restauratore di arazzi, non perdonava il fatto di essere femmina, e sfogava in famiglia i traumi emotivi riportati dalle trincee della Grande Guerra. Louise subì anche la difficile situazione creatasi con la presenza, in famiglia, dell’amante del padre, Sadie Gordon Richmond che insegnava inglese a lei e ai fratelli.

Louise Bourgeois - Camera rossa 1994 - Ph. Maximilian  Geuter © The Easton Foundation - VEGAP Madrid
Louise Bourgeois – Camera rossa 1994 – Ph. Maximilian Geuter © The Easton Foundation – VEGAP Madrid

Nel 1932, perse la madre a causa dei postumi della spagnola contratta nel 1918, e in questo periodo di smarrimento, trova però la forza di reagire: va ad abitare da sola, in un appartamento di Rue de Seine, e apre una galleria d’arte dove vende quadri antichi. L’incontro nel ’37 con il critico americano Robert Goldwater, la porta a New York l’anno successivo, dove frequenta l’atelier di Vaclav Vytlacil. Negli anni Quaranta, avvia la sua carriera d’artista, fortemente incentrata sulle sue vicende personali.

Suggestivo incontro fra l’architettura del Guggenheim, e le strutture delle Cellule – esaltate dall’ampiezza delle sale, quasi fossero altari in una sterminata cattedrale -, e per la prima volta al centro di un progetto espositivo che le vede protagoniste. Il risultato è un palcoscenico introspettivo, in bilico fra l’idea dell’isolamento e dell’apertura, fra spazio costrittivo e spazio emozionale.

Le Cellule costituiscono il corpus principale dell’opera di Louise Bourgeois (1911-2010), un’artista fondamentale del XX Secolo, figura appartata fino alla tarda maturità, ma che nel corso dei decenni ha sviluppata un’arte dal linguaggio innovativo, in grado di estrapolare dalla materia una poetica esistenziale fortemente concreta, legata a sofferenze interiori metabolizzate nel tempo, attraverso una graduale presa di coscienza di sé, e riuscendo a trovare alcune delle risposte che cerca risposte in quella stessa produzione artistica, che nei suoi esordi conosce comunque una fase influenzata dal modernismo di Brancusi, Hepworth, Arp, prima di sviluppare una scultura rabbiosa, tagliente, incisiva, sovente anche minacciosa, estremo, poetico tentativo di metabolizzare e trasferire su una dimensione più accettabile quel clima oppressivo respirato in famiglia, all’ombra della tracotante figura paterna. Le Cellule si situano nella produzione della tarda maturità dell’artista, quando la radicata esperienza di vita le ha permesso di riconsiderare con la giusta serenità il suo passato, anche inquadrandolo in un senso più generale dell’esistenza, stanti le considerazioni sociopolitiche riferibili alla società del secondo Novecento. Opere che hanno profonde radici umanistiche, ravvisabili anche nelle Prigioni di michelangiolesca memoria, per il senso di lotta che lasciano intuire. A fianco della lettura psicanalitica, subentra qui una riflessione di estetica contemporanea, legata all’ambivalenza della forma e dello spazio, leggibili sulla base dell’esperienza personale. Spazi non facili da vivere, appunto, che richiamano l’architettura delle periferie industriali di tante città contemporanee; una scultura che trova corrispondenza nell’opera letteraria di Tennessee Williams, con i suoi torbidi ambienti familiari, ma anche nelle pagine di Rick Moody o David Foster Wallace.

Louise Bourgeois - Cellula L'ultima scalata 2008 - Ph.  Christopher Burke © The Easton Foundation - VEGAP Madrid
Louise Bourgeois – Cellula L’ultima scalata 2008 – Ph. Christopher Burke © The Easton Foundation – VEGAP Madrid

A metà tra rifugio e prigione, all’interno delle Cellule, Bourgeois ricostruisce stanze dall’intimità che a tratti repulsiva, a rappresentare ambienti appunto creduto familiare, protettivo, ma in realtà rivelatosi oppressivo, una sorta di tribunale kafkiano, dove il senso di colpa è perennemente ricordato, senza che se ne dia una spiegazione. Ed è proprio il senso di colpa, istillatole dal padre, che Bourgeois si porterà dentro per decenni. Il tormentato approccio con il suo corpo di donna emerge anche nei suoi dipinti, in particolare in I give everything away, una tela dove il corpo femminile sembra sanguinare, inesorabilmente nudo sotto lo sguardo del pubblico, quasi fosse chiamato a discolparsi di qualcosa. Una tela sofferta, fortemente autobiografica, che dà la misura dell’intensità della produzione artistica della Bourgeois, la cui riflessione incentrata sulla condizione della donna, a partire da vicende autobiografiche, l’ha resa una delle artisti più influenti del Novecento.

 www.guggenheim-bilbao.es