Giovanni Papini, uno dei più grandi scrittori del Novecento, sosteneva che poche città hanno avuto un peso essenziale e determinante nella formazione e nell’ascesa dell’Occidente. In particolare ne indicava quattro, secondo un percorso ideale da Oriente verso Occidente: Gerusalemme, il centro della rivoluzione cristiana; Atene, la patria della rivoluzione intellettuale; Firenze, il cuore della rivoluzione umanistica che ha aperto la via alla civiltà moderna; Parigi, il vivaio delle rivoluzioni razionalistiche e liberali che hanno gettato le premesse del mondo di oggi. Firenze, più delle altre città, si è caratterizzata in ogni epoca per il senso del reale, dell’avversione alle fantasie fiabesche, dal disprezzo delle evasioni, da un’aderenza alla storia e alle sue leggi che fa dei fiorentini uno dei popoli più “concreti” del mondo. Il “miracolo di Firenze” – scriveva Giovanni Spadolini, che da Papini era diretto allievo – è stato quello di contemperare una naturale disposizione alla poesia, alla pittura, all’architettura, “una grazia e un’eleganza innate, un insuperabile amore della bellezza con un attaccamento alla natura, una disciplina del mondo, una coscienza degli obblighi e dei doveri della vita, quali si potrebbero trovare solo in egual misura in popoli dediti prevalentemente ai commerci e alle industrie come gli inglesi o i veneziani”.

Niccolò Machiavelli

Quel senso reale non si può spiegare senza risalire al fondamentale pessimismo fiorentino, o alla considerazione spietata degli uomini e delle loro debolezze, delle loro malvagità, delle loro miserie, che si potrebbe definire come una sorta di “machiavellismo” perenne, oltre agli stessi insegnamenti del Segretario fiorentino. Sembra quasi che i concittadini di Machiavelli posseggano in misura massima fra tutti i popoli il senso del “limite”, la coscienza di quel “provvisorio” che è la storia: nessuna delle grandi eresie è nata a Firenze, nessun fiorentino ha mai pensato di trasformare il mondo: fra i pochi che ci hanno provato un ferrarese immigrato sulle rive dell’Arno, il predicatore domenicano Girolamo Savonarola al Convento di San Marco e, se vogliamo, in tempi a noi assai più vicini, un siciliano come Giorgio La Pira. “Città laica”, è stato detto a ragione. È la prevalenza della vita civica in senso laico e democratico che ha evitato a Firenze le evasioni utopistiche o mistiche. La stessa attitudine alle arti figurative e alla scienza fisica – attitudine che spiega i miracoli del genio fiorentino – nasce nei cittadini di Dante e di Michelangelo dall’amore della realtà. Quanto al pessimismo dei fiorentini, è una storia ancora da scrivere. Scopriremmo allora le radici di quel gusto della beffa e del motteggio che è connaturale nella nostra gente, di quei fondi di amarezza che si sfoga nell’ironia e nella satira, in quanto non trova altro modo per colpire i lati ignobili e ridicoli dell’uomo. La maschera di Stenterello non è che l’ultimo fantasma, estenuato ed esausto, della spietatezza fiorentina.

Michelangelo Buonarroti

The “miracle” of Florence

Giovanni Papini, one of the most important writers of the 20th century, believed that few cities had an existential and determining impact in the establishment and growth of the West. In particular, he mentioned four, following a path from East to West: Jerusalem, the heart of the Christian revolution; Athens, the home of the intellectual revolution; Florence, the cradle of the humanistic revolution that opened the doors to modern civilization; and Paris, the fertile grounds of those rationalist and liberal revolutions that set the premises for today’s world. Florence, more than the other cities, emerged in every era for a distinct sense of the real, of the aversion to fairy-tale fantasies, for a contempt of evasions, for a steady grip on history and on its laws that make Florentines one of the most “concrete” people in the world. The “miracle of Florence” – said Giovanni Spadolini, who was Papini’s direct pupil – was that of balancing a natural disposition to poetry, to painting, to architecture, “an innate grace and elegance, an inseparable love for beauty with an attachment to nature, a discipline of the world, a conscience of the duties and obligations of life, which can be found in equal measure only in those civilizations mainly dedicated to commerce and industrialization, such as the British or the Venetians.” That sense of the real cannot be explained without mention to the fundamental pessimism of the Florentine people, or to the merciless consideration of men and of their weaknesses, of their wickedness, of their miseries, which we could define as a sort of perennial “Machiavellianism”, besides the same teachings of the Florentine Secretary.
It seems almost as if Machiavelli’s compatriots have the most developed feeling of “limit” among all populations, that awareness of the “temporary” that is history: none of the great heresies was born in Florence, no Florentine had ever thought of transforming the world: among the few that tried, a man from Ferrara immigrated to the banks of the Arno, the Dominican preacher Girolamo Savonarola at the Convent of San Marco, and, if we may, in more recent times, a Sicilian like Giorgio La Pira. “Laic city” was said with reason. It’s the prevalence of civic life in laic and democratic regards that avoided Florence the utopian or mystical evasions. The same attitude to figurative artis and physical science – an attitude that explains the miracles of the Florentine genius – is born in citizens like Dante and Michelangelo from the love of reality. As for the pessimism of the Florentine people, it’s a story that still needs to be written. We will then discover the roots of that taste for mockery and of the banter that comes natural to our people, of those bitter endings that flow into irony and satire, as it finds no other way to strike the despicable and ridicule sides of man. The mask of Stenterello is not but the last phantom, extenuated and exhausted, of Florentine ruthlessness.